Un raccoglitore di idee, parole, immagini in ‘rigoroso’ ordine sparso!… E l’ordine sparso è dato dal reperire poco a poco tanti articoli da me pubblicati su varie testate di grande prestigio ma forse poca rilevanza nazionale. Non starò certo qui a dire quale stampa “spacchi” (per dirla nel gergo dei giovani) : si sa…si sa..

Per questo motivo gli articoli scritti su “Le nostre pagine”, “Primo”, “Scena Illustrata”, “Albatros” o donati a vari siti web saranno inseriti in ordine NON cronologico. Grazie a chi leggerà.

sabato 20 agosto 2011

La storia d'amore di Anton e Olga.... atto secondo...





...sì... perchè l'articolo del post http://anna-dalmiopuntodivista.blogspot.com/2011/07/una-storia-damore-checov-checova.html di questo blog era solo una presentazione dello spettacolo.
Questa, invece, pubblicata nell'aprile 2007, è la mia recensione, quello che, rivedendo lo spettacolo, è venuto fuori dalla testa e dal cuore. Perchè il teatro va vissuto e amato, e uno spettacolo, se scuote alcune corde dell'anima vuol dire che ha assolto al suo compito.
Questo bellissimo lavoro, con due ironici, brillanti , appassionati e sofferenti Giulio Scarpati e Lorenza Indovina, prodotto dalla Compagnia de "Gli Ipocriti' è una luminosa 'perla grigia', dunque rara, nel panorama dello spettacolo degli ultimi anni.

cliccare per ingrandire

QUI ALCUNE FOTO DI SCENA






La Compagnia Teatrale de "Gli Ipocriti"


Pubblicato nel maggio 2004 sul mensile "Albatros", questo articolo presenta una delle Compagnie Teatrali più prolifiche del sud Italia.




A tutt'oggi produce spettacoli in tutta Italia con cast di attori qualificatissimi.
Qui, infatti potrete trovare il link

http://www.ipocriti.com/compagnia_view.asp


martedì 5 luglio 2011

"Una storia d'amore" Checov- Checova

E' del gennaio 2006 questa presentazione-recensione di uno degli spettacoli più belli dell'attore Giulio Scarpati (di cui amministro il Blog Ufficiale http://arteteatro-eva.blogspot.com/ ). presentata al Bellini di Napoli per la stagione teatrale 2005/2006 .
Il lavoro vivrà la successiva stagione 2006/2007: a breve la seconda, più particolareggiata recensione.

Teatrante da sempre: Paolo Capozzo

E' del 2003 questo articolo pubblicato sul mensile "Primo" e dedicato ad uno dei più attivi e prolifici attori e/o registi irpini, Paolo Capozzo.
Non resta che leggere per capire e sapere che di talenti ne esistono, anche 'nascosti' in piccole città!

di Anna Maffei

domenica 19 giugno 2011

Fantasmi, ricordi e sogni nelle tele di Mario Alifano


E poichè chi ama l'Arte la ama in tutte le sue espressioni, ecco una mia intervista al pittore irpino Mario Alifano.
L'intervista fu pubblicata su "Albatros" del settembre 2004






ANCORA su Mario Alifano una recensione della mostra "ABBRACCIAMI"

di Anna Maffei

“ABBRACCIAMI”:PERSONALE DELL’ARTISTA IRPINO MARIO ALIFANO.

L'impatto avvolgente, a tratti addirittura opprimente e soffocante di “ABBRACCIAMI” è il risultato di un lungo percorso di sperimentazione ed esperienza artistica che tende a minimizzare l'apporto delle pur elaborate tecniche pittoriche utilizzate, a tutto favore dell'emersione di un pathos quasi intollerabile, che mozza il respiro, attrae e respinge ad un tempo. Lo spettatore si ritrova facilmente coinvolto ed invischiato in uno strano universo parallelo, i cui inusitati riferimenti e modelli appaiono la fantascienza anni settanta come il feuilletton ottocentesco...

Una militanza solitaria, quella di Mario Alitano, che rifugge -e non per snobismo- da allettanti ammucchiate propositive. Un procedere in sordina, fin dal 1995 quando, dopo una fase ‘scolastica’, il pittore si abbandona al proprio istinto, denso di ricordi, gioie e paure.Dipinge al risveglio, solitamente. In uno stato quasi di ‘trans’, l’artista segna e contrassegna in maniera caotica ed indistinta, per poi osservare e tentare di ‘riconoscere’ qualcosa di definito che vien fuori perché gli “appartiene”. Non è rifiuto del reale questo estendere strati di terra bianca, nera, fuoco, dove “incidere” qualcosa, qualcuno…Da questo paesaggio accidentato in cui inizia a muoversi, a seconda delle suggestioni oniriche, emergono il volto, la maschera, lo sberleffo o anche una dimensione erotica e passionale.

Alifano ‘prepara’ le sue tele creando un territorio materico, pronto da plasmare, quasi esclusivamente con le mani: qui delimita, identifica, piuttosto che ‘isolare’, attraverso il disegno, più che la pittura. Egli stesso si sorprende dinanzi a ciò che, gradualmente, si ‘presenta’, ancor prima che lo spettatore. E il suo “comunicare” non ha limiti, tant’è che in quasi tutti i quadri, il colore “deborda” dalla cornice quasi a non voler trovare limiti al turbine del pensiero, alle idee, al sogno, alla ricerca e al superamento di un “io offeso” da un mondo fin troppo carico di crudeltà e ingiustizie!

“Abbracciami” è il titolo di un quadro che ha dato il nome alla mostra, tenutasi ad Avellino lo scorso maggio presso un noto negozio d’arte. E’ un abbraccio che viene da lontano, una suggestione. Non è un intrepido, Mario Alifano; piuttosto un ‘viaggiatore, con la mente e le viscere”.

Si evince, osservando i suoi lavori una maturazione ed una tensione verso la luce, il colore, svincolato dalla forma. Se le tele di qualche anno fa costituivano il suo ‘inferno’, le più recenti, pur nascendo da un caos emozionale, da un andare e venire da se stesso, si spingono verso una dimensione di serenità, luoghi ascetici e purificazione.

La “materia”, allora, punto di partenza dell’opera, perderà via via quell’oppressione dell’esordio per diventare luce e solarità, amore e sensualità: un abbraccio, appunto, con un non ancora definito “altro”. Comunque una riconciliazione col mondo e l’universo.

Sempre con lo sguardo da “artista”.





giovedì 16 giugno 2011

"Musicando"....con Miguel Bosè!


Ebbene si. Confesso. Il mio 'punto debole', l'artista che porto nel cuore dalla giovinezza e che ho sempre seguito con costanza e, direi, 'devozione' è un cantante, attore, ballerino, presentatore... : è Miguel Bosè.
Qui inserisco due articoli pubblicati in web, in due momenti diversi che lo vedono protagonista in Italia: il concerto del 5 dicembre 2007 a Milano e l'uscita del CD/DVD Cardio Tour nel 2011.

Miguel Bosè :il ritorno!

A volte ritornano...
E lui, Miguel Bosé è tornato. Anche se, possiamo immaginarlo, almeno ‘col cuore’, dall’Italia non si è mai allontanato.
Sappiamo bene alcune ‘regole’ dei mercati discografici e, intorno agli anni ’80, dopo strepitosi successi, concerti affollati di ragazze impazzite, quando il bel Miguel ha cercato una ‘strada’ diversa, musicalmente parlando, è come svanito…. Ma non per chi ha seguito il suo lavoro svolto in Spagna e in tanti Paesi latini, come ha potuto, fino poi all’era del pc e di internet che ora è ricco di contenuti che lo riguardano.Di “Papito” l’album uscito a maggio 2007, dove l’artista si è avvalso della partecipazione dei suoi più cari amici, grandi professionisti della musica latina, se ne sta, ovviamente, parlando tanto. Tre dischi di platino in Spagna, Italia e Messico; 15 settimane, e oltre, di primato in classifiche; Disco d’oro negli Stati Uniti, Argentina, Colombia, Equador. Ancora disco di platino in Argentina e Cile e, in assoluto, il disco internazionale più venduto in Italia.
Le cifre ‘parlano’, non c’è dubbio…Non si può premiare tanto un lavoro se non merita.
A breve, inoltre, uscirà un cd live e il dvd del concerto tenutosi a Madrid.In più, il 5 dicembre ci sarà l’unica (speriamo di no…!) tappa italiana del tour presso il Dacht Forum di Assago, Milano. “Todo bien por ‘Papito’”, allora…


L'ARTICOLO INTERO QUI:http://www.ilmascalzone.it/articolo.php?id=12982






Miguel Bosè e il suo Cardio Tour: fascino di gioco e poesia
Recensione di Anna Maffei


Dopo il ritorno col Cd Papito uscito a maggio 2007 su etichetta Carosello Records (tre dischi di platino in Spagna, Italia e Messico; 15 settimane, e oltre, di primato in classifiche; disco d'oro negli Stati Uniti, Argentina, Colombia, Equador; disco di platino in Argentina e Cile e, in assoluto, il disco internazionale più venduto in Italia...!) e il suo Papitour durato tre anni con un'unica data in Italia, il 5 dicembre 2007, Miguel Bosè fa delle 'puntatine' come ospite.
A febbraio del 2009 è ospite a X Factor e partecipa con garbo e professionalità alle esibizioni dei giovani; lo stesso garbo che attirerà l'attenzione di vecchi e nuovi fans di Miguel nell'esibizione a Sanremo 2010. Questa ospitata, in una vetrina così seguita, ha infatti 'risvegliato' in molti italiani l'affezione verso questo artista che, sebbene poco presente nella nostra nazione, vive nel cuore di tanti. La sera dell'esibizione sanremese, il blog che amministro, dedicato a lui, registrò duemila visite nel giro di venti minuti! E questo mi dette la dimensione dell'interesse sempre vivo verso Miguel Bosè.

----CONTINUA QUI: http://www.mdarte.it/rubriche/rece/spettacolo/maffei/maffei1.htm


Per chi volesse 'approfondire' la conoscenza di questo artista, rimando al mio blog dedicato a lui:
"Miguel Bosè tra mito e realtà" a questo link:
http://mamyta-mamyta.blogspot.com/

I 'vecchi' giovani di "Un medico in famiglia"

E...tornando ai protagonisti della fiction più amata dagli italiani, "Un medico in famiglia", ho recuperato un'intervista del dicembre 2004 pubblicata su "Albatros".
Manuele Labate lo incontrai, mentre era in procinto di partire per il set di un altro film tv, alla Stazione Tiburtina e, seduti al tavolino di un fast food, si svolse questa piacevole chiacchierata....

mercoledì 1 giugno 2011

Intervista a uno dei 'giovani' di "Un Medico in famiglia7"


di Anna Maffei

Si sa che il Teatro è un’ottima fucina di artisti e indubbiamente fornisce strumenti per il ‘mestiere’ di attore che altro tipo di scuola non dà. E, per fortuna, non tutti i giovani attori escono da improvvisati talent show.

E’ il caso di Lorenzo Federici, interprete del personaggio Gianfilippo Colla nella fiction “Un Medico in famiglia” nella sesta e settima serie.

La passione per la recitazione l’ha sempre avuta e, dopo la ‘classica’ casualità di qualche comparsata, Lorenzo inizia a frequentare corsi di Musical presso l’Accademia “Amici della Musica” di Sant’Angelo Romano (oltre a studiare Canto e Batteria all’Accademia nova di Roma).

Varie le esperienze in fiction e film tv : “Orgoglio”; “Ti piace Hitchcock?” per la regia di Dario Argento ;“ Scusa ma ti chiamo Amore” e “ Scusa ma ti voglio sposare” nel ruolo di Matteo; “Vip”, regia di Vanzina, nel ruolo del fratello di Matteo Branciamore; “ Don Matteo 7” nel ruolo di Davide per la regia di Giulio Base.

E poi, nel 2009 approda nell’animata Famiglia Martini!

-La figura del ‘Colla’ in Medico è molto positiva: bravo ragazzo, studioso e soprattutto saggio. Sei così anche nella vita quotidiana?

-Sono un ‘bravo ragazzo’, si- ci risponde-. Vivo la mia età, mi diverto, coltivo molti interessi e vado bene a scuola (pur non essendo ‘secchione’ come Gianfilippo..!). Sono sereno e non vivo molte inquietudini come parecchi miei coetanei. E riesco ad essere anche saggio o quantomeno ‘moderato’.

-Hai ricoperto molti ruoli prima di Medico. Ci sono parti che preferisci interpretare o per ora vuoi solo apprendere e/o perfezionare il mestiere dell’attore?

- La gavetta è fondamentale. Al momento non ho preferenze perché ritengo che tanti tipi di esperienze siano un bagaglio importantissimo per chi si accinge ad iniziare questo mestiere. Forse però un ruolo complicato, di un personaggio che sia il mio totale opposto non mi dispiacerebbe…

-“Un medico in famiglia” è considerata da sempre una fiction portatrice di sani valori. Tu, da giovane quale sei, pensi che questo tipo di tv possa essere in qualche modo educativa?

E’ bella l’atmosfera che si respira in casa Martini. Le tematiche della fiction abbracciano un po’ tutti gli aspetti della vita, momenti belli e brutti che vengono superati da una grande forza chiamata ‘famiglia’ e forse proprio questo è il messaggio: l’amore, la condivisione, parlarsi, comunicare. E, anche se in questa serie la famiglia si era ‘allargata’ abbastanza, si è riusciti a trovare comunque dei punti d’incontro.

-Un episodio del set che ricordi con grande piacere…?

-Potrei dire tutti… Si, perché sul set di questa fiction tutto è molto vivace, fluido, senza tensioni. Ovviamente i momenti più belli li ho vissuti con il gruppo di noi ragazzi. Un momento in cui non sapevo se vergognarmi o morire dal ridere è stato quando ho indossato l’abito da cane, nella puntata finale. L’abito non era destinato a me, inizialmente, ed io ne ero ben felice. Poi, però, le cose sono cambiate ed io mi sono sentito imbarazzatissimo a girare una scena con ‘Annuccia’ così dolce ma conciato in quel modo! Però, come ho detto, le occasioni per ridere di gusto mentre lavoravamo non sono mancate.

-Ci racconti il tuo rapporto col Medico Lele/Scarpati?

Posso senz’altro dire che Giulio Scarpati è stato un po’ il mio punto di riferimento fin dall’entrata nella sesta serie. E’ una persona di grande cuore, molto comunicativo e protettivo verso tutti, in particolare noi ragazzi. Mi ha sempre rassicurato la sua presenza, nonché i suoi consigli, e non perdeva occasione per scherzare con noi. Senz’altro una figura cardine di questa fiction. E poi un vero ‘padre’, ecco!

-Domanda di rito: progetti per il futuro?

-Be’, alla luce del successo di questa fiction, ovviamente auspico un’ottava serie. Intanto ho a breve uno spettacolo teatrale con la Compagnia KAIROS TEATRO dal titolo “ E’ BEN STRANO TUTTO CIO’ “da Eugène Ionesco che sarà presentato al “Teatro delle Muse”. Per me è molto importante esplorare le mie capacità, stimolare la fantasia, conoscere e applicare tecniche teatrali, “mettermi in gioco” e scoprire anche un’immagine sconosciuta di me stesso.

- Cosa consiglieresti ad ogni ragazzo che volesse intraprendere la carriera di attore?

- Consiglierei senz’altro di ‘studiare’. Capire fino a che punto è un diletto e fino a che punto è un reale desiderio di intraprendere una carriera piena di difficoltà. E’ un vero mestiere e come tale va ‘appreso’. Questo vuol dire sacrificio, passione, e…magari prepararsi a delle sconfitte, anche. Ma senza mollare, se si è convinti fermamente!

sabato 28 maggio 2011

Dall'Irpinia con ...... il rock di Tommy Lee

Un incontro che poi è divenuta affettuosa amicizia. Questa è un'intervista che feci a Tommy Lee nell'agosto 2002 e fu pubblicata sul mensile "Primo".
Tommaso Napoletano...in arte Tommy Lee..



Cliccare sulle foto per ingrandire. Buona lettura!





Ecco un po' di 'storia' di Tommy in un video



E QUI l'attuale Tommy



Il canale You Tube dove si possono trovare tutti i video è QUESTO:
http://www.youtube.com/user/tommyleeofficial?feature=chclk#p/a

martedì 24 maggio 2011

Il 'viaggio costante' di Enzo de Caro

Enzo De Caro: Nato a Portici (Na) il 24 marzo 1958.
Studi classici e laurea in Lettere moderne presso l'Università Federico II° di Napoli.
Docente di Scrittura creativa alla Facoltà di Scienze della Comunicazione all'Università di Salerno.
La sua carriera di autore e attore si divide tra teatro, televisione e cinema.

Lo incontro alla fine dell'aprile 2006 alla Rai di Viale Mazzini, in occasione della presentazione della fiction "La provinciale" con Sabrina Ferilli.
Chiacchieriamo piacevolmente seduti sui divanetti accanto alla sala proiezioni e...sarà per l'essere entrambi 'campani', sarà per la sua innata disponibilità a dialogare, mi concede questa intervista dandomi subito del tu, e chiedendo altrettanto...




domenica 22 maggio 2011

Margot Sikabonyi: non solo fiction

di Anna Maffei



L'intervista risale al 2003.
Margot mi accolse a casa sua: era appena tornata dalle prove di "Aggiungi un posto a tavola" ed era molto stanca ma ugualmente si 'concesse' col sorriso sulle labbra e con grandissima affabilità.
Il musical era alla sua seconda replica; nella stagione precedente il ruolo di Clementina fu affidato a Martina Stella. Ora, invece, Margot aveva accettato la sfida dimostrando notevoli doti nel canto, nella danza e, ovviamente, nella recitazione.
Qui l' articolo pubblicato su "Albatros"

Giulio Scarpati e il suo 'hobby' del recitare....

di Anna Maffei


Il rapporto 'giornalista'-attore tra me e Giulio Scarpati si va trasformando in una bella amicizia (dopo il casuale e felice incontro d'idee dettate dalla mia recensione sul suo spettacolo di Koltès....) e dunque molte saranno le occasioni d'incontro e le interviste.
Questa di seguito fu pubblicata su "Albatros" nel 2005





venerdì 20 maggio 2011

Il "Re Lear" di Alessandro Preziosi


di Anna Maffei




Articolo pubblicato sul mensile "Albatros" - marzo 2005




































cliccare sulle immagini per ingrandire e leggere


lunedì 16 maggio 2011

"La notte poco prima della foresta" con Giulio Scarpati


Lo spettacolo è stato in molti teatri di tutta Italia nella stagione teatrale 2000/2001



Giulio Scarpati in teatro: 55 minuti che raccontano una vita
di
Anna Maffei


Un testo difficile, ”La notte poco prima della foresta” di Bernard-Marie Koltès, uno dei più inquieti ed inquietanti drammaturghi francesi degli anni ottanta. In tournée per due mesi, l’attore Giulio Scarpati ha “sfidato “ se stesso e il suo pubblico proponendosi in una veste completamente diversa. Benevento, Milano, Napoli: queste alcune delle tappe di un tour forse un po’ breve data la notevole qualità del prodotto teatrale. Certamente il successo di “Cuore” lo ha riproposto al grande pubblico televisivo; è tornato ancora in TV, su Rai Uno, nel film “Resurrezione” dei Fratelli Taviani ma le attese del pubblico sembrano essere sempre quelle di ruoli pacati, confidenziali, rassicuranti… Invece la sorpresa. Nello spettacolo di Koltès, con la regia di Nora Venturini, Scarpati scuote tutti. Intanto un monologo. Difficile “entrarci”, da spettatore, ma qui, in una scena spoglia, con solo una sedia vuota e un giubbotto di pelle nera, c’era tutto.
Suoni metropolitani, melodie spezzate, ritmi lontani in una realtà buia, rotta da fasci di luce. E un’attesa. Sembrava dovesse giungere qualcuno o qualcosa all’improvviso… A guardar bene ,invece, c’era già tutto: lui, lo “straniero”, occupava lo spazio nero con i suoi pensieri, ora schivando gli specchi schizzati di pioggia che lo circondavano, ora aggrappandosi, disperato. Le parole sgorgavano dalla mente, dal cuore, dai visceri: un fiume ininterrotto, frenetico, rabbioso. Forse desiderio di vendetta: vendicarsi di quegli “stronzi attruppati alle spalle” [cit.], che ti usano a loro piacimento, o delle donnine bionde che ti attraggono e poi… ti imbrogliano. Ma non è vendetta. E’ bisogno di comunicare, trovare il modo per farlo, senza rinnegarsi.
E poi la voce dell’attore: affannata, decisa, poi disperata, improvvisamente dolce, carezzevole, quasi flebile e indifesa di fronte a un mondo avverso che “copre”, “affossa” come la “puttana che mangiava la terra dei cimiteri” [cit.] di cui nessuno voleva sentir parlare. Un’emarginazione resa in modo esasperato che, però, non ha fatto ‘tendere i nervi’ al pubblico. Si restava rapiti da quel tessuto di parole, dai ‘ritorni’ dei pensieri che poi non erano più gli stessi: tornavano sempre più ricchi, più pieni. Emozionante il finale, benché finale non fosse perché la ‘pioggia’ che continuava a cadere sul protagonista dava il senso di qualcosa che non può mai finire… ma emozionante perché d’improvviso si fa luce nella sua mente e tutto scorre veloce: i suoi incontri, le bruttezze, le illusioni. Prima che le luci si spengano e la musica svanisca, è bello l’abbraccio, segno di un amore che finalmente si dichiara, a quell’agognato ‘compagno di viaggio’ che non è lì (c’è il suo giubbotto) ma è solo un’evocazione. Così come evocato è un campo d’erba dove sdraiarsi, degli alberi, un posto sicuro, tranquillo, senza doversi nascondere ai margini di una foresta per non essere ‘preso’ e ‘sbattuto’ ancora una volta in un altro posto.
Davvero incisiva, dunque, in questa pièce l’interpretazione di Giulio Scarpati; i suoi occhi indagavano lo spazio scenico con uno sguardo che aveva ‘il punto di fuga all’infinito’; la voce ora strozzata dalla rabbia, ora dolce per il ricordo, attirava. Finalmente un ruolo che evidenzia una forte carica interiore e, al tempo stesso, un’aggressività e una sensualità che gli stanno davvero bene addosso. Probabilmente questo è il vero Scarpati e il pubblico se n’è accorto. D’altronde la sua ‘nascita’ come artista è avvenuta sul palcoscenico di un teatro.Forse non tutti lo sanno.


LA RECENSIONE è PRESENTE ANCHE IN QUESTO SITO:
http://www.dramma.it/dati/articoli/articolo42.htm

domenica 15 maggio 2011

Bernard-Marie Koltes : il genio e la parola

Attualità di un autore che raccontava la diversità e l’isolamento.

di Anna Maffei

“Il mio reale milieu è una via di mezzo tra l’hotel per immigrati e l’hotel ad ore. Le mie radici non esistono….”. Questa la confidenza di uno dei più grandi drammaturghi francesi degli anni ’80, Bernard Marie Koltès, nato a Metz nel 1948 e prematuramente scomparso nel 1989, malato di AIDS.

Una voce lancinante e vertiginosa nel deserto della scrittura drammatica contemporanea. Già citando i titoli delle sue opere, “Retour au désert”, Combat de nègre et des chiens” e “Dans la solitude des champs de coton “, si avvertono i sintomi di un isolamento, in tema con una cultura da Linea dell’Ombra. Le sue collaborazioni artistiche vantano nomi come Chereau, Michel Piccoli,Jacqueline Maillar, personalità sempre un tantino defilate rispetto ala cultura di massa.

Koltès è sempre scappato ma mai per paura: è andato via dal conformismo espressivo; ha contestato il manierismo e minimalismo della parola con affermazioni molto pregnanti. Un vocabolo o una sintesi incidono poco.

Per Koltès una parola prende forma e significato solo attraverso un “tessuto di parole”, un ritmo di altri fonemi, condensato o seriale che sia….la spiegazione tende all’infinito. La grandezza di questo autore è la sottile tensione verso un lirismo letterario quasi classico in cui, tuttavia, temi come la violenza, l’isolamento, il male, l’incomunicabilità si trasformano in poesia. Chi ha potuto assistere ad almeno un’opera di Koltès in teatro ne sarà rimasto sicuramente rapito ed affascinato.

I testi sembrano grondare di letteratura ma qui diventano reali, corporali e i personaggi non hanno altro tempo ed altro luogo se non quello delle parole che dicono:esse “nascono” in quel momento.

E la drammaticità dei lunghi monologhi si concretizza in quello spazio-simbolo che è la scena.

Appassionato lettore di Conrad, pose sempre al centro delle sue opere molti di quei luoghi privilegiati, “metafore della vita o di un aspetto della vita…”: paesaggi sospesi tra i continenti e le razze, oscuri docks, labirinti di metropolitana, un lago ghiacciato, la cavità di un albero,una caverna.

E la Voce che fuoriesce da questi luoghi diventa anch’essa metafora da cui l’autore prende gradualmente, la “sostanza intima”, quel “sibilo del Vento interiore”.

Non importa capire la lingua di un posto dove si sta o si capita per caso: serve piuttosto osservare e sentire ciò che quel posto e chi ci vive comunica con i rumori, i movimenti del corpo, gli odori…

"...ho corso, corso, corso, perché stavolta, svoltato l'angolo, non mi trovassi in una strada vuota di te, perché stavolta non ci fosse soltanto la pioggia, perché stavolta dall'altra parte io potessi ritrovare te e avere il coraggio di gridare: compagno..! il coraggio di prenderti il braccio, compagno!, il coraggio di accostarmi a te, compagno, compagno, fammi accendere..." dice in una delle sue opere più rappresentate in teatro, “La notte poco prima della foresta”,testo insolito dal punto di vista della ‘scrittura’, senza punteggiatura, soste o altro..;qui soprattutto ci dà i “suoni” delle voci più che il “senso” delle parole.

Ed in teatro queste metafore sono vive, corporali, tangibili lasciando però sempre delle domande, l’attesa, la sensazione di un viaggio nell’intimo.

In Koltès, personaggi senza Nome.

Ognuno di loro potrebbe essere “chiunque” di noi:

gente che fatica per riuscire a “nascere”, a ritrovare le proprie radici.

Eravamo negli anni 80 quando questo giovane genio della letteratura e del teatro diffondeva i suoi pensieri,bruscamente interrotti da una precoce morte.

Ora, quanti, ovunque, sono “impegnati” in questa fatica!
E quanti sono ricacciati da chi non accetta la loro Voce, fatta di rumori, odori, movimenti ...

Non siamo ancora capaci di ascoltare “i suoni” delle Voci dei tanti che ci attorniano, diversi da noi.

Non abbiamo ancora inteso cosa può essere la “parola”.


"Lo spazio come simbolo"



Ed ecco il saggio. Scritto a 24 anni, appena laureata. Un po' lungo per essere letto in un blog? Be'...un capitolo alla volta ce la si fa.

Il saggio qui di seguito fa parte del volumetto ”La scena nel tempo- momenti dell’evoluzione di un’arte”

E’ una breve raccolta che punta a rivivificare la memoria storica dell’oggetto “messa in scena” e del concetto di spazio teatrale. Nelle varie epoche storiche, lo spettacolo nasce in armonia con il luogo e lì svolge la propria essenza di spettacolo…

“Lo spazio come simbolo” conclude il libro, essendo un excursus sintetico ma sostanziale delle innovazioni del linguaggio teatrale del ‘900.

A cominciare dai fermenti dadaisti e surrealisti, dal Teatro Alfred Jarry e il grande teorico Antonin Artaud, passando per il teatro vivente di Julian Beck e Judith Malina, a quello politico sociale del Bread and Puppet Theatre fino alle esperienze d’avanguardia degli anni ‘70-’80.


di Anna Maffei

LO SPAZIO COME SIMBOLO

Nel momento in cui la realtà sociale, politica e culturale comincia a non più rispecchiare o soddisfare le esigenze di spazio mentale dell'individuo, si verifica una rottura nei confronti della realtà ed una ricerca sempre più consistente di una trascendente esperienza vitale.

1l teatro, o in generale ogni manifestazione di tipo rappresentativo, risente fortemente di questo nuovo slancio e di questa ricerca di espansione, di dilatazione, per cui dà luogo nel corso del Novecento a una serie di esperienze rivolte in questa direzione, vuoi di tipo specificamente avanguardistico e clamoroso, vuoi di tipo più programmatico e sistematico. In ambedue i casi si tratta comunque della medesima intenzionalità: ridare un senso al teatro e alla vita. Il processo cui danno luogo queste due fondamentali tendenze artistiche, in pratica il Dadaismo e il Surrealismo, si caratterizza dunque come processo di analisi, di messa in discussione di alcuni valori propriamente teatrali e non, per un'operazione svolta direttamente sullo specifico linguistico caratterizzandolo ancora di più come tale anche dopo uno svuotamento iniziale della parola.

Una volta modificato il linguaggio, uno degli elementi strutturali portanti dello spettacolo teatrale, lo spazio in cui esso linguaggio si esprime si va definendo allora sempre meno come luogo fisico semplicemente e sempre più come spazio intellettuale con notevoli risvolti simbolici: rifiutando il realismo, i fasti della messa in scena e valorizzando la dimensione poetica.

L'uomo è al centro delle preoccupazioni teoriche del Dadaismo e del Surrealismo, l'uomo che pensa, l'uomo con le sue facoltà immaginatrici, tendendo ad una sollecitazione della psiche umana per far «muovere » i meccanismi oscuri dello spirito, per poter « pensare » ed esprimere il pensiero eliminando qualsiasi controllo da parte della ragione, senza preoccupazioni di altro genere, estetiche o morali.

Sulla scia degli artisti in pittura, i teatranti o i teorici del teatro intendevano forzare le leggi del caso con collages di parole, di frasi, accostando deliberatamente due realtà da cui venisse fuori una terza con valore misteriosamente diverso.

IL TEATRO ALFRED JARRY E LE “TEORIE “DI ANTONIN ARTAUD

Ancora prima del 1924, data in cui uscì il primo manifesto del Surrealismo, fu dato il primo colpo terribile all' imperante concezione del teatro tramite i mezzi del teatro stessi: un'azione eversiva abbastanza simile a quella svolta poi dai pittori dadaisti che con i loro quadri miravano a distruggere l'idea di Arte e addirittura di Anti-Arte con l'unica intenzione di provocare finalmente una emozione profonda del voyeur, di colui che 'guardava', tante volte falsata da una lunga serie di tradizioni ipocrite. Nel 1896 infatti Alfred Jarry rappresentò al « Théatre de l'Oeuvre »l 'opera « Ubu Roi » con uno scenario stupefacente e disorientante che mise in subbuglio tutto l'uditorio: « Un letto a cortine gialle completo del vaso da notte, dipinto sotto un cielo blu dove cadeva la neve, una forca con l'impiccato in simmetria con un serpente boa su di una palma, una finestra infiorata di gufi e pipistrelli che volavano alti sopra colline vagamente boscose, e , ad unire il tutto, un sole scarlatto posto ad aureola di un elefante; al di sotto, l'altare degli interni delle case moderne, il caminetto con il suo pendolo che faceva da centro e batteva a due porte fino al cielo servendo da entrata ai personaggi » (1).

La scenografia era soppressa, si usavano maschere allo scopo di eliminare l'.istrionismo. ed esprimere il carattere eterno del personaggio in cui non si notava la verità ma solo le sue manie inconsce. Veniamo alle oscenità, alle allusioni scatologiche, anche l'asprezza del linguaggio, le affermazioni assurde, irrazionali, derisorie e ne ricaveremo che ciò abbia potuto provocare nello spettatore un'angoscia pressante perché privato tutt'a un tratto di ciò che aveva più caro: le sue illusioni provenienti da lunghi secoli di convenzioni sceniche stabilite.

La « scatola chiusa » della scena esplode finalmente creando un nuovo spazio che è una nuova lingua e che è nuova libertà d’ azione su tutti i fronti.

Non per niente, a distanza di circa trent'anni, Robert Aron, Roger Vitrac e Antonin Artaud fonderanno un nuovo gruppo drammatico col nome appunto di « Teatro Alfred Jarry » per una creazione di un teatro puro, nel rifiuto del teatro naturalista, inutile reperto fotografico del reale, del teatro psicologico, dello spettacolo come divertimento, con l'intenzione invece di mostrare sulla scena immagini indistruttibili che possano portare alla luce tutto un insieme di desideri, di sogni ed entrare in diretto contatto con lo spirito. La novità della messa in scena bisogna cercarla soprattutto negli scenari e nei giochi di luce: Artaud voleva ad esempio che gli scenari, gli accessori e gli oggetti di scena fossero considerati per quelli che erano realmente, in modo che dalla loro disposizione, dalla loro presenza quasi inaspettata potesse derivare un turbamento nello spettatore trascinato e affascinato da una situazione enigmatica in cui sembra che da un attimo all'altro possa esplodere qualcosa: una luce violenta esplora la scena e mette in evidenza anche ciò che è apparentemente invisibile.

L'operazione analitica svolta sugli oggetti si estendeva poi anche agli attori e in particolare al loro linguaggio verbale e gestuale: una recitazione molto serrata dalla quale avessero possibilità di emergere in primo luogo i lapsus, i cosiddetti 'atti mancati' per la rimozione dell' io_profondo e per la provocazione di un'emozione psicologica; i movimenti del corpo dovevano inoltre essere in armonia non tanto con le azioni quanto piuttosto con i pensieri non palesati, nascosti o riposti nell' inconscio dei personaggi. La psicoanalisi trovava così il suo punto di oggettivazione concreta nel teatro.

Il teatro Alfred Jarry diede allora la spinta alle creazioni teatrali verso un'emozionalità di tipo surrealista ma è il maggiore esponente di. questo gruppo, grande teorico del teatro, Antonin Artaud, a formulare in maniera più concreta e ragionata il concetto di scena, di spazio e di occupazione di esso, di spettacolo, in una parola di evento, termine che contiene già in sé il significato di magia, di rito partecipativo ancor prima che di rito di coinvolgimento: « Concepiamo il teatro come una vera operazione di magia. Non ci rivolgiamo agli occhi, né all'emozione diretta dell'anima; quello che cerchiamo di suscitare è una certa emozione psicologica, in cui saranno messi a nudo gl'impulsi più segreti del cuore... » (2).

Non vuole Artaud sfruttare l'inconscio per se stesso, ma riservargli un carattere oggettivo solo in misura della sua funzione nella vita di tutti i giorni.

E' allora proprio a questo punto che il teatro con Artaud non è più un rapporto limitato nell'ambito ristretto del palcoscenico ma si apre prepotentemente alla realtà vitale, rimettendo in discussione ogni sera i valori della messa in scena, dei contenuti e della recitazione.

La vita non è fatta di atti ripetitivi e il linguaggio della scena, nell'accezione artaudiana, non è ripetizione ed è poesia ma poesia in azione per cui la scenografia nel suo teatro della Crudeltà (momento successivo alla prima esperienza del Teatro Alfred Jarry) non è data come un fatto decorativo giacché la sua immobilità non risponderebbe ad un codice legato alla metamorfosi, al flusso continuo dello spirito.

Là dove esiste una forma stabilita vi è un blocco del pensiero e una regressione: fino a quando i due protagonisti della scena teatrale, attore e spettatore restano chiusi in una individualità finita, non possono riprendere la propria posizione tra i sogni e gli avvenimenti.

Non si tratta più di riportare tramite la poesia scenica il mondo così com'è, pertanto « ... solo ricostituendosi come serbatoio di miti, il teatro può ricucire la barratura occidentale tra conscio e inconscio, intellettuale e istintivo, pensiero e vita, a cui si deve la progressiva smagliatura del tessuto sociale, dove le élites sono separate dalle masse, la cultura è mera istruzione, una mnemotecnica incapace di raggiungere gli strati profondi della personalità » (3).

E' necessario dunque lasciarsi smuovere dal linguaggio dei simboli attraverso un nuovo codice interpretativo, cioè il teatro inteso come spettacolo totale, contenente elementi fisici e oggettivi in grado di essere percepiti da tutti.

« Grida, lamenti, apparizioni, sorprese, colpi di scena d'ogni genere, magica bellezza dei costumi ispirati a certi modelli rituali_. Splendore delle luci, bellezza ammaliante delle voci, incanto dell'armonia, accordi preziosi della musica, colore degli oggetti, ritmo fisico dei movimenti i cui crescendo e decrescendo concorderanno esattamente con la pulsazione di movimenti a tutti familiari, apparizioni concrete di oggetti nuovi e sorprendenti,maschere... » (4); tutte queste immagini che dovrebbero dar luogo all'evento totale artaudiano posseggono un forte senso fisico eppure per l'autore, concepite tutte insieme, possono smuovere lo spirito.

Così come dice Artioli in un suo saggio su Artaud: « Percosso dalla potenza dissociatrice delle immagini lo spettatore sente la propria forma, sin qui principio di coesione, polverizzarsi sotto la spinta di una forza assoluta dove si ritrovano al vivo tutte le potenze della natura. Questa forza che annienta e divora è 1'Altro, la parte inutilizzata della realtà psichica, il patrimonio di simboli e archetipi che giace nell'inconscio e che rappresenta il mondo del possibile contrapposto alla materia impietrata » (5).

Con questo linguaggio reso al limite della fisicità gli oggetti comuni e anche il corpo umano diventano segni, come caratteri geroglifici facilmente riconoscibili (simili a quelli dell'« altra » cultura con la quale l'autore era venuto a contatto in occasione dello spettacolo Balinese all' Exposition Coloniale nel 1930); le intonazioni della voce, le espressioni del viso colte in forma di maschera, i gesti simbolici, gli atteggiamenti emotivi vengono raddoppiati da una serie di altri gesti e atteggiamenti riflessi, quelli che di solito non vengono manifestati, tutti i lapsus dello spirito e della lingua tramite i quali si esprimono le cosiddette « impotenze della parola » (6).

La musica è concepita in senso concreto e i suoni agiscono come veri e propri personaggi; gli strumenti, adoperati come oggetti di scena, per produrre suoni acuti e insopportabili devono necessariamente non rientrare nell'uso comune; la luce, per potersi adattare ai movimenti dello spirito, deve essere tenua, densa, opaca, per stimolare sensazioni fisiche di caldo, di freddo, d'ira di timore.

Ma l'atto rivoluzionario eccezionale di Artaud che produrrà proseliti un po' in tutti i paesi, deriva dalla sua concezione della scena:

“Noi sopprimiamo la scena e la sala, sostituendola con una sorta di luogo unico, senza divisioni né barriere di alcun genere, che diventerà il teatro stesso dell'azione. Sarà stabilita una comunicazione diretta fra spettatore e spettacolo, fra spettatore e attore perché lo spettatore, situato al centro dell'azione, sarà da essa circondato e in essa coinvolto “ (7).

La .scena è dunque soppressa perché l'azione deve occupare tutti i punti della sala e gli spettatori seguire l'avvicendarsi dei fatti ruotando su sedie girevoli; proprio perché l'azione si di spiega in tutte le direzioni ogni scena viene illuminata ed illumina a sua volta il pubblico e i personaggi dovranno sostenere tutti gli assalti delle situazioni; inoltre al centro rimarrà un'area che, pur non essendo una vera e propria scena, darà modo al nodo centrale dell'azione di raccogliersi quando occorre.

Il linguaggio -che è soprattutto gestuale- apre allo spazio del teatro, lo spazio del teatro apre allo spazio della vita: la scena, in cui si attuano le contraddizioni della vita, diventa spazio della verità; qui, nell'efficacia di un rito, un insieme di uomini ritrova la fiducia nel difficile cammino della vita.

La cerimonia scenica non finge la vita ma « è vita intensificata e, contemporaneamente, rigorosa coscienza del dramma che affligge la creatura. Se il teatro è sogno, nel senso nervaliano del termine, è anche la 'grande veglia', il momento in cui l'abisso si schiude rivelando con l'orrore la possibilità di redenzione » (8).

Lo spettatore, nello spazio del teatro, occupa il vuoto che, in quanto tale, esige di essere colmato inserendovi quante più forme possibili, per produrre materia, per liberare il cosiddetto 'soffio' artaudiano cioè energia dissociata al punto che anche gli oggetti teatrali si trasformano in stimoli demoniaci, dotati di una forza nascosta e il linguaggio diviene movimento che raggiunge lo psichico per via corporea.

Cosi, quando Artaud pone al centro lo spettatore e in periferia tutto lo spettacolo dà all'evento scenico il senso di rito di purificazione e « ... l'accerchiamento dello spettatore, percosso nei nervi dal linguaggio concreto dello spettacolo, ha come fine il riconoscimento della propria condizione » (9).

E credo sia proprio in questa affermazione il nucleo centrale di tutta la ricerca di Artaud e il motivo per cui è necessario porre questo autore a guida e promotore delle esperienze successive di teatro, europeo e non: nonostante l'enorme supporto simbolico, metafisico, a volte mistico, cardine di tale ricerca, essa è pur sempre di ordine politico nel senso che cerca di agire ad un livello profondo per attivare le possibilità in nuce ritenendo che tutti i bisogni dell'uomo hanno una determinazione storica e come tali possono essere mutati.

Questo tipo di teatro vuole coinvolgere l'esistenza intera dell' individuo, scuotendolo dalle sue angosce, dalle sue preoccupazioni, con un'azione aggressiva che lo stimoli a scoprire le sue contraddizioni interiori. Lo spazio del teatro dove si moltiplicano forme, materia dissociata, soffi e nello stesso tempo che dà 1' idea di una creazione organica, simbolizza il divenire, « ... scioglie conflitti, sprigiona forze, libera possibilità ... » (10) e diviene il regno immediato della libertà assoluta nella rivolta.

Lo spazio del politico in questo teatro si caratterizza allora come momento di intervento nella vita e nella realtà dei gruppi per aiutarli a conoscere la propria realtà e come fare per modificarla: l'uomo che lotta deve conoscere e capire quale sia il proprio stato morale e mentale, porsi di fronte alla propria natura, per smuovere tutto ciò che gli impedisce di conoscere e riconoscere la propria umanità.

Partendo da questi presupposti il teatro arriva a concepire come passibile di modificazioni e cambiamenti la nuova struttura sociale che interpreta e rappresenta, distruggendo se stesso, per ricrearsi, negando lo spettacolo ed elaborando un evento che, relativamente alla sua struttura linguistica, non può porsi come oggetto distaccato dallo spettatore ma lo riassorbe completamente e attivamente.

Dunque Artaud proclamava teorie clamorosamente disfattrici del vecchio teatro in nome di una demolizione di questo fino alla completa dispersione dell' idea di teatro con la creazione dell' avvenimento puro che nega tassativamente la ripetizione e afferma, all'opposto, il Caso, la Fatalità, caratterizzandosi come manifestazione formale continua che nasce da un alterno comporsi e scomporsi delle figure, dei corpi nello spazio.

JULIAN BECK E JUDITH MALINA E IL LIVING THEATRE

L' interesse simbolico nella teoria del teatro artaudiano può allora ancora superare 1' interesse politico il quale ultimo farà invece da base a quel teatro che dal 1947 in poi operò in America parallelamente agli sviluppi delle più importanti vicende storico-politiche. Intendo riferirmi a quel fenomeno della cultura americana (e poi in seguito non solo di essa) che diede lo stimolo alla nascita di un “nuovo teatro”' il cui merito fu innanzitutto quello di promuovere un ritorno a forme teatrali comunitarie, rituali, popolari, riscoprendo l'origine dell'esperienza teatrale nel rito, nella fusione danza - musica - parola (con l'abolizione quasi completa del testo scritto), nella partecipazione di un' intera collettività senza veramente più distinzione di attore e spettatore. Si tratta del Living Theatre, il teatro vivente, il teatro - vita fondato da Julian Beck e Judith Malina.

Non altro che le teorie del nominato Artaud costituiscono il punto di partenza per la pratica teatrale di questo gruppo:

« La storia è la ruota della vita alla quale l'uomo è incatenato dal suo ego. - da un'armatura di carattere timorosamente difensiva che reprime i suoi istinti di libido piuttosto che organizzarli economicamente, e che perciò lo rende impotente nei rapporti personali di fiducia amorosa che determinano la comunità, costringendolo invece ai rapporti impersonali governati da valore, convenzione, interesse, che governano la società (non comunitaria, civilizzata), e che richiedono l'autorità regolatrice dello stato (regole imposte). Inoltre questa armatura dell'ego racchiude le sorgenti vivificanti della forza di vita cosmica, uccide l'energia umana di creatività spontanea e quindi rende praticamente impossibile all'uomo porre rimedio alle sue miserie... Solo un salto miracoloso può far scendere qualcuno o l'umanità da questa Ruota: una reazione a catena di creatività spontanea, una rivoluzione spirituale che si autopropaga.. Il Living Theatre.„ cerca di contribuire a questo miracolo con la sua magia » (11).

Questa nuova anarchia che muove le menti e i cuori dei promotori del Living doveva portare allora ad un'effettiva azione politica, all'agitazione teatrale tramite una trasmissione di spiritualità piena di energia nei contatti personali, tramite una forte azione figurativa sui sensi.

Il loro intento (simile a quello di Artaud) era quello di purificare la civiltà dalla criminalità che le è caratteristica, di allontanare 1' 'Uomo dalla miseria e dalla crudeltà della civilizzazione.

Lo spazio della scena dunque, dove gli attori del Living intendono mostrare le contraddizioni della vita e dell'uomo, si dilaterà o si restringerà a seconda dei simboli di cui la rappresentazione si caricherà di volta in volta e, insieme, del significato politico che tali simboli andranno assumendo: il tutto sorretto da una tecnica di improvvisazione e da un materiale al tempo stesso organizzato, in grado quindi di espandersi e ricostruirsi, aprirsi e chiudersi, per procedimento o per artificio.:.

Come la danza e la musica nei culti dei popoli primitivi così qui la cinetica e l'acustica prendono il sopravvento su ciò che è staticamente visivo: rumore e disordine provocati continuamente dagli attori che, muovendosi in fulmineo contrappunto con la staticità degli spettatori nei loro posti, dislocano le loro azioni per tutta la platea e la galleria, spesso di corsa, tornando indietro, rivolgendosi a determinate file di spettatori e tornando in modo coordinato sul palco. A questo movimento continuo nello spazio del teatro si aggiungano i rumori di. voci, di battere di piedi, di mani, che fanno veramente parlare l'aria: quest'ultima pullula di un linguaggio di grida di rabbia e orrore, di rantoli di agonia, di slogan anarchici che testimoniano il triste linguaggio della sofferenza, non un linguaggio di concetti, di opinioni ma un vero gesto orale, posto fisicamente per far leva sulle emozioni. E' l'agitazione della psiche umana.

Ancora ad accentuare questo universo interviene la luce, distribuita e controllata in modo da sottolineare episodi distinti: cambiando ritmicamente i colori al centro della scena si può vedere una teoria mistica di stati d'animo. Si passa dal buio totale ad una parziale illuminazione e poi all'uso di tutte le luci simultaneamente.

L'atmosfera cambia e questo fatto non fa altro che dare unità all'evento scenico, ne cambia l'ordine o il grado di realtà e in continuazione e diversamente separa o unifica gli spettatori e la Compagnia.

La mescolanza attori-pubblico tramite questi mezzi dotati di un forte senso fisico (movimento, voce, luce) mira a comunicare o l'idea di un insieme di uomini uniti spiritualmente in maniera coerente o la mancanza di questo nella solitudine di individui singoli, soli o tra la gente.

Gli spettacoli sono un invito alla comunità spirituale della Compagnia al fine di realizzare la comunità spirituale di tutta l'umanità trascendendo l'attuale società non spirituale.

Tutto sommato l'azione di questo teatro è un vero e proprio esorcismo, mirante cioè ad allontanare il Male e i Mali del Presente che esso individua (caratterizzandoli in modo più o meno palese nei vari spettacoli) nello Stato, nell' individualismo, nella esaltazione di una società commerciale, mercificata e mercificante, tutto questo sostenuto dalla presenza direi costante dell'elemento militarista, costrittivo, alienante e antisociale per eccellenza.

Ritengo che in particolare in uno degli spettacoli del Living Theatre, uno degli ultimi prima della crisi del gruppo avvenuta nel 1968, siano presenti un po’' tutti i motivi della loro indagine e del loro modo di fare teatro: i « Mysteries ».

Quest'opera fortemente realistica nonostante la sua apparenza di sogno e di dimensione irreale, trasforma il caso della realtà in una realtà più profonda e significante, la realtà dell'arte, che apre la strada dell' immaginazione spirito - corpo allo scopo di individuare nuovi strumenti per comprendere la vera surrealtà del nostro esistere.

Lo spettacolo ha inizio con un attore immobile sotto la luce al centro del palcoscenico, raggiunto poi da un gruppo di attori posti precedentemente alle spalle del pubblico, mentre degli altri leggono ad alta voce le parole stampate su di un biglietto da un dollaro; a questo punto gli attori al centro danno un ordine incomprensibile e improvvisamente il teatro cala nella più completa oscurità mentre una donna improvvisa un canto hindu, e dopo l'apparire di leggeri fili di luce sulla scena, gli attori scendono verso il pubblico portando in mano bastoncini di incenso che bruciano profumando l'aria. L'azione prosegue con le grida progressive e all'unisono di slogan rivoluzionari cui il pubblico si unisce con foga fino a giungere al momento mistico della riunione, quando gli attori in cerchio cominciano a respirare lentamente accordandosi al ritmo del respiro del vicino « Intrigando lo spettatore non iniziato è una specie di messaggio fisiologico, alludente alla necessità di una profonda totale purificazione del. corpo e della mente tutt'assieme » (12).

Le scene più sintomatiche poi appaiono nella seconda parte quando cioè gruppi di attori improvvisano composizioni all'interno di cornici di quattro cassette di legno, con la apertura verso il pubblico a mo' di quadri viventi illuminati ad intermittenza; agli angoli del palcoscenico inoltre due gruppi di attori si allineano, uno di fronte all'altro e procedono in uno scambio di gesti o suoni che alla fine conducono ad una partecipazione esultante di tutti i componenti e del pubblico stesso.

La scena finale, ispirata dalla descrizione della peste di Artaud, rappresenta la realizzazione effettuale della filosofia teatrale del Living: nella penombra appare una visione strabiliante, gli attori sono tutti morti, sprofondati sul palco, tra i passaggi, addosso agli spettatori, e dopo un silenzio di alcuni minuti, i morti si alzano, ricomponendosi in modo contorto per essere poi portati sulla scena e disposti a piramide. A questo punto termina lo spettacolo nell'oscurità.

E' facile desumere allora da questa se pur sommaria descrizione che l'attore e la scena diventano i termini fondamentali di un'azione magica nella misura in cui gli stimoli da essa provenienti riescono a compiere un atto di forza, un atto di crudeltà (proficua) su chi assiste.

La suggestione provocata da un teatro che 'si fa' sulla scena come fosse vita, deve portare non alla catarsi come immedesimazione ma ad una presa di coscienza della propria mente e del proprio corpo per compiere una rivoluzione permanente verso la conquista della libertà. Dice Julian Beck: « Non puoi continuare a produrre separazioni. Quel sistema è finito. La peste della separazione. Non puoi parlare di cambiamento e restare immutato. Dunque ciò che mostri sulla scena devi viverlo. Altrimenti è completamente privo di valore. La peste della menzogna. Arte come anti-menzogna. Può essere la sola funzione valida per questa emergenza. Il teatro di emergenza, della sensazione, del cambiamento, dell'azione svela la menzogna che gli spettatori sono morti, provandone l'attività. Lo spettatore diviene attore, il teatro diventa vita, l'emergenza è la verità » (13).

L'evoluzione del Living procede proprio in questo senso, nella dilatazione progressiva. nel cammino del teatro da uno spazio che discrimina a uno che unisce e l’ esperienza dell'opera « Paradise now » (l'ultima opera prima dello scioglimento, fortemente impregnata di un anarchismo non violento in grado di operare, attraverso i riti e le visioni e gli scalini di una rivoluzione psicologica- culturale, una liberazione dell'individuo) sarà il momento -spinta per il gruppo ad intraprendere un discorso ancora più concreto, nel passaggio all'azione senza più alcun diaframma.

Probabilmente la Compagnia aveva indirizzato la sua azione in primo luogo tenendo conto dell'esigenza di fare arte e quest'ultima aveva finito per assorbire, per certi versi, l'interesse politico - sociale - culturale che inizialmente si era posta.

Il superamento dell'estetismo per giungere ad una fase attiva nel vero senso della parola si rende necessario allora quando il Living, tornando a New York dopo l'esperienza europea, si trova dinanzi ad una situazione politica e sociale che ha bisogno di essere analizzata dall' interno senza offrire un prodotto di un'opera di teatro: in tal modo si rischiava di arrivare fatalmente all' istituzione - teatro.

Dall'arte si passa all'azione dunque e la Compagnia si sposta in Brasile al fine di inventare nelle favelas brasiliane un avvenimento socio - politico che ha come spazio ideale tutta la zona in cui vivono queste persone. E’ una profonda azione culturale in cui gli attori non forzano il rapporto con coloro i quali vengono a contatto ma adattano il proprio status culturale a quello del gruppo cui si rivolgono che diventa addirittura protagonista di un atto di vita, inventato, in quella dimensione, ma vero perché vissuto normalmente e giornalmente in una dimensione diversa.

Quest'esempio di « azione di strada » come possiamo definirla, risulta allora sintomatica é testimoniante della via che un teatro passabilmente aperto può e deve seguire per recuperare dei valori culturali che il potere borghese e capitalistico da tempo ha messo e mette più o meno violentemente da parte.

BREAD AND PUPPET THEATRE DI PETER SCHUMANN

Con questa svolta decisiva del gruppo del Living si apre la strada ad un teatro che pone alla base della sua ricerca un vero e proprio lavoro politico - sociale oltre che culturale all' interno della comunità, strada che sarà seguita, sempre in America, da una serie di compagnie teatrali formatesi intorno agli anni sessanta. Tra queste spicca per i suoi caratteri di originalità il Bread and Puppet Theatre di Peter Schumann che opera essenzialnente nei rioni, nei ghetti, nei quartieri poveri, insomma nelle zone socialmente ed economicamente definibili come periferiche e dunque depresse. Il fenomeno, pur nascendo in una situazione politicamente caratterizzata e definita qual'era l'America di quegli anni, si espande tuttavia facilmente proprio per le sue caratteristiche di espressione immediata e vitale della comunità e per gli strumenti nuovi che adopera per determinare tale comunicazione.

Con il Bread and Puppet Theatre « ... si ricrea il rito un po' misterioso della comunicazione popolare attraverso musica - danza - maschere - pupazzi - favole.

Il Bread and Puppet torna alla essenzialità del teatro riscoprendone le forme più dirette coinvolgenti, espressive, le forme più semplici e facilmente recepibili: 'Un teatro è valido se ha senso per la gente ... Non ottieni nulla se non riesci a farti capire anche da una bambina di cinque anni. Se lei ti capisce, ti capiranno anche gli adulti ...' (Peter Schumann) » (14).

L'analisi di questo teatro si orienta dunque verso la dilatazione più estrema dello spazio, abolendo addirittura completamente l'ambiente chiuso dell'edificio teatrale (più o meno strutturato da essere considerato tale), per agire nella strada, tra la gente, al limite preferendo locali fortuiti che diano la possibilità di definire lo spazio degli eventi teatrali: « Le pratiche di Schumann suggeriscono che la norma dovrebbe consistere nello spazio rotto, plastico, indefinito, non racchiuso da scene ma definito frammentariamente da un arredamento mobile in modo che l'azione non si svolga” tra o dentro” ma “attorno”. Adoperando il muro di mattoni del teatro con le sue tubature come sfondo o rompendo le quinte con un arredamento che spezza la scena non si riesce a raggiungere l'essenziale: dare la priorità assoluta alla azione » (15).

Lo scopo prefisso era sostanzialmente quello di provocare una diretta risposta emotiva all'evento combinando capacemente elementi strutturali,cioè propriamente vitali e sovrastrutturali, cioè teatrali.Uscendo, lo spazio si dilata afferrando lo spettatore involontario, il passante distratto, colto di sorpresa e magari più partecipe proprio perché fuori da un luogo deputato….

Shumann fa muovere le sue marionette senza celare nulla: il fatto teatrale viene “scavato”, creato con l’azione e con i corpi che vi si muovono dentro.

Si potrebbe a questo punto fare un riferimento agli “autentici geroglifici” balinesi tanto esaltati dal citato Artaud che riempivano la scena,la caricavano di significati simbolici.In effetti una similarità esiste ma con una differenza:i fantocci del Bread sono paradossalmente simboli tangibili, sono “gli uomini” con la loro vulnerabilità e si rivolgono “al bambino nell’adulto non ricostruito”.

Il mondo di favola creato contiene segni che rimandano al mondo reale: è il mondo visto con gli occhi di un bimbo per il quale gli adulti “sono” dei veri fantocci, si muovono governati da convenzioni e inibizioni, stimolati nelle azioni più da una routine che da impulsi vitali effettivi.L’ adulto, per il bambino, obbedisce a due forze che rappresenta, la forza della vita- che dà protezione, sostiene- e la forza della morte- che sopprime e che regola: e il bambino classifica a seconda della forza che fa muovere l’adulto.

I fantocci sono figure rappresentative caricate di eccezionale emozionalità.E’ un po’ come rendere brechtianamente sorprendenti le cose di tutti i giorni per portare ad una comprensione maggiore della realtà che si vive e ad assumere un atteggiamento critico nei confronti della medesima.

In maniera ancora più consistente che non la teoria artaudiana e il teatro-immagine del Living, il Bread si rivolge alla comunità di uomini così come farebbe qualsiasi uomo della strada che assuma un atteggiamento caratteristico o diverso dagli altri indicando i mali del mondo, le difficoltà della vita i suoi valori e la sua futilità.

Definiamolo anche un teatro di provocazione nel senso che stimola la partecipazione del pubblico almeno emotiva alle proprie ideologie, ma probabilmente Schumann non intendeva limitare il suo teatro semplicemente a questo: voleva un teatro popolare per tanta gente comune che potesse assistere ad uno spettacolo e divertirsi, divertirsi anche di se stessi, constatando le condizioni comuni ed avere anche paura dei pericoli che possano minacciare.

Per verificare come il Bread ad un certo punto, nonostante un notevole periodo di crisi dal punto di vista del prodotto, abbia poi tenuto fede alle proprie intenzioni, basti pensare alla sua partecipazione attiva e costante alle dimostrazioni, alle occupazioni, al fianco dei lavoratori in sciopero, nelle linee di picchetto, in cui appunto la sua azione si qualificava come operatore politico e culturale al tempo stesso con un intervento sempre impostato nel senso della massima dedizione ed umanità.

L'aver preso come punto di riferimento particolare l'esperienza del nuovo teatro americano degli anni sessanta e l’ evoluzione in senso strutturale degli elementi fondamentali del discorso teatrale, credo risulti sufficientemente esplicativo della modifica che va subendo il settore in nome di un legame sempre più profondo con le parallele modifiche sociali e politiche.

Non a caso si è usato il termine « rivoluzione permanente » indicando come tale un processo di rinnovamento di forme e contenuti continuo e senza ripensamenti, tutt'al più con un ragionamento, oltre che sul linguaggio, in particolare sulle tecniche del teatro; queste ultime indagano lo spazio, lo scandiscono e lo svuotano o lo riempiono, comunque lo modificano aprendolo a nuovi angoli di visuale.

La scelta di luoghi non deputati e di mezzi espressivi non tradizionali, la scelta di uno spazio qualsiasi non specializzato, senza riferimenti istituzionali e quindi carico di tutti i significati e le implicazioni più autentiche e stimolanti, anche 1'elementarità delle strutture narrative, senza un testo, senza una codificazione, tutto questo è rivoluzione ed è permanente nella misura in cui assume un carattere di storia oltre quello palesemente politico.

Proprio la coscienza di un senso della storia ritengo caratterizzi l'avanguardia in generale allorquando questa utilizza le tradizioni apportando continuamente modifiche, considerandola come un'immensa riserva di soluzioni, di tecniche, di sperimentazioni.

E' evidente che 1' idea base di ogni ricerca rappresentativa di stampo avanguardistico o tendenzialmente sperimentale sia quella di un teatro quanto più vicino agli altri, nel trovare un luogo dove sia possibile essere - in - comune tralasciando l’ esigenza secolare di nascondersi e di nascondere il procedimento della finzione sia scenica che recitativa, mostrandolo anzi, per far risaltare il dentro e il fuori, per una demistificazione totale della cerimonia scenica senza per questo distruggerla.

Si era individuato, all'inizio del discorso, nel rito la particolarità del nuovo teatro e, nonostante alcune deviazioni nella trattazione, credo che questo continui a caratterizzare ancora oggi e forse oggi in particolare anche in Italia le esperienze teatrali dei vari gruppi: ci si riunisce in comunità, si opera per una _popolarità del messaggio, affinché questo diventi comprensibile al gruppo eventuale che debba recepirlo coinvolgendolo quanto più è possibile, in attesa anche di una risposta cosciente e critica.

Senza addentrarci in un discorso sull'avanguardia teatrale italiana che potrebbe risultare in questa sede poco esaustivo, superficiale e probabilmente anche scarsamente indicativo, si potrebbe tuttavia almeno dire che essa, nel corso degli anni '70 in particolare, ha assorbito nel proprio campo operativo tutte le esperienze del precedente e contemporaneo teatro europeo e non europeo, modificando via via i termini del proprio discorso per seguire separatamente o unitariamente due linee: l'una specificamente analitica volta alla sperimentazione dello spazio anche dichiaratamente inteso come spazio fisico; l'altra esistenziale che verifica la posizione dell'attore nei confronti del proprio essere sulla scena, del linguaggio più appropriato per tale verifica (teatro concettuale) con un costante riferimento alla vita reale citata più che detta tramite l'uso di elementi solitamente esclusi dalla pratica del teatro, cioè a dire fotografie, diapositive, materiale verbale, oggetti. L'ausilio di tutti questi elementi che hanno per altro un notevole senso oggettivo e rimandano segnatamente al dato reale, risulta molto utile perché, pur smitizzando l'idea di teatro, determina la permanenza del simbolo inteso come mezzo elementare, semplice, primario, che contiene il significato delle cose senza la mediazione di inutili parole e messinscene.

La linea direzionale del teatro sperimentale rispetta fedelmente la denominazione che questo si dà e cioè conoscitiva e la conoscenza non può avvenire se non tramite esperimenti, pratiche correlate alle vie che la società, in cui tale teatro opera, va seguendo.

E' per questo che non si può prescindere dalla meccanizzazione, dai nuovi mezzi di comunicazione, dalla tecnologia, le quali caratterizzano giornalmente la realtà esistenziale, ma tutto questo al fine di risalire ad un'unica origine:: come funzionano il mondo e le cose, e quale ruolo, se un ruolo deve esistere, noi svolgiamo in esso.

NOTE

(1)Cit. in H.BEHAR,Il teatro dada e surrealista,Torino 1976,pp.21-22

(2)A.ARTAUD,Il teatro e il suo doppio,Torino 1968,p.14

(3)ARTIOLI-BARTOLI,Teatro e corpo glorioso,Milano 1977,p.125

(4)A.ARTAUD,op.cit,p.144

(5)ARTIOLI-BARTOLI,op. cit.,p.209

(6)A.ARTAUD,op. cit.,p.209

(7)A.ARTAUD,op. cit.,p.211

(8)ARTIOLI-BARTOLI,op. cit.,p.151

(9)ARTIOLI-BARTOLI,op. cit.,p.162

(10)A.ARTAUD,op. cit.,p.149

(11)S.BRECHT,Nuovo teatro americano 1968-1973,Roma 1974,pp.15-16

(12)cit. in G.BARTOLUCCI, The Living Theatre,Roma,1970,p.46

(13)J.BECK,La vita del teatro,Torino 1975,p.38

(14)M.MAFFI,La cultura underground,Bari 1973,p.390

(15)S.BRECHT,op.cit.,p.288